Abbiamo intervistato l‘artista napoletano Fabio Abbreccia. Vediamo cosa pensa della sua arte
Fabio Abbreccia nasce il 6 febbraio 1985 a Napoli.
Nascono dall’urgenza…. disegnare, dipingere, sono un’esigenza fisica, il
bisogno di espletare una funzione a cui bisogna dare sfogo altrimenti ti avvelena da dentro.
Più difficile è capire se sia la pittura il risultato di una mia urgenza o io della sua, un pò come la morte e l’amore di Sclavi “… che aspettano insieme il grande giudizio e non hanno mai fine e non hanno mai inizio.”
Da dove proviene l’ispirazione della sua arte e la scelta dei
soggetti?
Ci sono pittori ossessionati dall’umanità e dalle persone, a me non interessano le persone, salvo casi eccezionali, non hanno il minimo fascino per me, invece mi interessa il corpo. Il corpo come evento particolare, immanente, inconsapevole.
La quantità di segni prodotti da questo corpo è quello che mi smuove e che vorrei in maniera violenta strappargli via. In definitiva per me il soggetto non è niente, è solo un punto di partenza, quello che conta è il modo o l’ eccesso del modo. Che Van
Gogh dipingesse un vaso di fiori, o un campo di grano, o delle scarpe non aveva importanza perché tutto risiedeva nella potenza del gesto.
Cosa vuole trasmettere attraverso la sua pittura e i colori utilizzati?
Niente, anche perchè non esiste ‘quello che voglio’ ma solo quello che accade e questo non sono in grado di calcolarlo. Quello che faccio lo faccio per sconvolgermi, è l’unica cosa che conta, destabilizzarmi come quando guardo Francis Bacon… ma non ci riesco mai.
Quale aspetto mette in maggior evidenza la sua personalità artistica?
La parola personalità mi provoca sempre del fastidio (per non parlare della personalità artistica che non so cosa possa significare). Dipingere non dovrebbe essere il dilagare dell’ego e dell’ io, questo io che è sempre uno sconosciuto, che è sempre qualcuno che vorremmo essere e mai chi siamo davvero. Dipingere dovrebbe essere una fuga dalla personalità, un ritorno al reale.
‘Il cammino dell’ artista è continua estinzione di se stesso.’ Thomas Eliot.
Cosa significa essere Pittore oggi?
In primis essere pittore significa non essere un decoratore, vuol dire essere anacronistici, la pittura obbliga a misurarsi con il linguaggio e non a produrre carinerie da appendere nei salotti, soprattutto oggi, epoca in cui la pittura è come una rovina che non ha più bisogno di giustificare la propria presenza tramite un’utilità e che quindi può e deve essere territorio per una ricerca in totale libertà.
Cosa crede di suscitare negli spettatori che osservano i suoi quadri?
Non mi preoccupo della reazione del pubblico né di dirgli qualcosa.
Quello che si consuma con l’opera è un rapporto personale, intimo e libero, serve solo a noi… è un guardarsi allo specchio e non una triangolazione che unisce il fruitore all’artefice.
La sua attenzione è rivolta esclusivamente alla pittura o ci sono
altri campi di interesse a cui si dedica?
Dedico molto tempo al dipingere, al disegnare e al guardare.
Leggo molto, amo il cinema e molte altre cose che esulano dall’ambito artistico anche se inevitabilmente, come fosse un buco nero, l’urgenza risucchia tutti questi aspetti per rivomitarli fuori, nel modo che preferisce.
La cosa non mi dispiace, l’importante è il movimento, questo moto perpetuo esteriore ed interiore.
‘La cosa più pericolosa da fare è restare fermi’ Diceva Burroughs.